XI.

Altri aspetti e altri scrittori della Letteratura volgare Quattrocentesca

1. La letteratura religiosa del Quattrocento

Se gli ideali prevalenti del Quattrocento sono ispirati dalla civiltà umanistica nelle sue varie fasi e quindi da una fondamentale valorizzazione della vita dell’uomo, della sua dignità, libertà, capacità creativa, essi pur non mancano, come abbiamo già visto, di una loro particolare religiosità e di tentativi volti a conciliare cristianesimo e mondanità, con riflessi avvertibili persino in un Lorenzo de’ Medici. E piú particolarmente, durante il secolo, può individuarsi un aspetto della letteratura quattrocentesca piú direttamente condizionata da precisi ideali religiosi: fra ripresa della tradizione medievale, reazione al pericolo «pagano» della cultura umanistica e ai suoi riflessi nella stessa vita morale della gerarchia ecclesiastica e della curia di Roma, e piú decise esigenze di riforma della Chiesa e di intervento nella stessa vita civile e politica cittadina. Una letteratura, d’altra parte, che a volte risente di certa piú umana e bonaria letizia e di un’attenzione ai casi della vita con una saggezza piú affabile e meno drammatica di quella prevalente nelle correnti religiose medievali, anche se, verso la fine del secolo, il dramma politico e religioso italiano stimola in alcune personalità religiose le note piú cupe e apocalittiche, il sentimento della salvezza dell’anima solo nella sua adesione alla fede e alla grazia divina.

Si possono cosí rapidamente collocare entro questa linea varia (fra contrasto e avvicinamento ad aspetti della civiltà umanistica) alcune forme e personalità di letteratura religiosa che, oltre tutto, piú facilmente possono ricollegarsi ad una maggiore popolarità, ad un contatto piú immediato, e meno aristocraticamente letterario, con le istanze e le esigenze della vita del popolo, delle sue tradizioni, dei suoi costumi, del suo linguaggio, e quindi con un impegno di comunicabilità meno preoccupato di eleganze formali e piú volto all’efficacia e all’effetto rappresentativo-morale, alla volontà di impressionare la coscienza e la fantasia di un pubblico meno raffinato e artisticamente esigente e pure dotato di una relativa cultura e di un bisogno di soddisfazione estetica che sono alla base del generale sviluppo della civiltà quattrocentesca.

Piú direttamente legate alla tradizione sono le «laude», certo meno intense e insieme piú ricche di una certa musicalità e affabilità di quelle medievali (e fra le quali spicca, per una maggiore tenerezza e freschezza, quella attribuita al cardinale Giovanni Dominici – «Di’ Maria dolce, con quanto desio» –), e le «sacre rappresentazioni» che sviluppano l’esempio delle laude drammatiche precedenti in forme piú apertamente teatrali, con maggiore abbondanza di particolari spettacolari e scenografici, e con maggiore presenza di personaggi e episodi che nel tema sacro riportano aspetti della vita popolare e cittadina. Per lo piú in questo campo si giungeva a risultati di scarsa validità artistica, anche se gli autori della «sacra rappresentazione», per lo piú anonimi e membri di confraternite religiose, non mancavano spesso di piú ingenue ambizioni nella combinazione dell’intento edificante e dell’attrazione dell’attenzione popolare mediante elementi di spettacolo e di divertimento. Ma non mancò pure qualche autore piú colto, come Feo Belcari fiorentino (1410-1484), che accanto ad alcune opere agiografiche come le Vite dei gesuati e la Vita del beato Colombini, scritte in una prosa semplice, ma tutt’altro che rozza e ingrata, compose varie sacre rappresentazioni di notevole efficacia e spontaneità (soprattutto quella di Abraam e Isacco).

Mentre anche nell’attività dei predicatori, che proseguiva quella delle prediche trecentesche, i segni del gusto e della visione piú serena del Quattrocento non mancano di caratterizzare positivamente la prosa fresca vivace delle prediche, avvivata di esempi e di aneddoti tratti dall’esperienza, e appoggiati ad una saggezza cristiana piú mondanizzata e spesso briosa e sorridente. Come è soprattutto il caso delle prediche di san Bernardino da Siena (Bernardino Albizzeschi, nato a Massa Marittima nel 1380 e morto all’Aquila nel 1444), personalità molto interessante per una forma di religione che sviluppa gli elementi francescani, già cosí aperti alla vita degli uomini e al sentimento dell’armonia del creato, in una direzione di saggezza che non rifiuta certi elementi della visione umanistica della vita (Bernardino era uomo colto e aveva compiuto studi umanistici) e, pur fedele al centro essenziale della salvezza religiosa, ne umanizza le condizioni su di un piano prevalente di moralità, di condotta pratica, di comportamento nella vita quotidiana e socievole. E perciò la prosa di san Bernardino si avvale di esempi, di apologhi, di battute ironiche, di rapide e gustose scenette di vita vissuta, di proverbi e di frasi popolari che insaporiscono e ravvivano coerentemente il tono di un’ammonizione e di un’esortazione morale-religiosa, sicura e decisa, ma insieme fiduciosa e serenamente bonaria.

Piú vigorosa, drammatica, passionale è la personalità del frate domenicano Girolamo Savonarola, che insieme si intona al clima drammatico dell’ultimo Quattrocento, da lui intensamente vissuto, in netto contrasto con lo svolgimento piú vistoso e centrale dell’Umanesimo nel Rinascimento sulla direzione della bellezza, della complessità armonica della vita e delle sue regole naturali e umane, dello sforzo di una civiltà che tende a superare appunto il dramma e la crisi del tempo, finché questi (serpeggianti, come vedremo, anche nella zona piú propriamente rinascimentale) esploderanno violenti nella tragica visione umana e artistica di un Michelangelo. Sicché, proprio pensando alla influenza che sulla formazione di questo grande protagonista spirituale e artistico del Cinquecento maturo esercitò la predicazione del Savonarola, meglio si può capire come il grande predicatore di fine Quattrocento, battuto e sconfitto al termine della sua battaglia ideale e pratica, rappresenti in realtà una voce assai storicamente importante della sua epoca; una voce che non si spense interamente con la scomparsa fisica del frate nel tragico rogo del 1498 e che violentemente aprí una linea di appoggio a successivi sviluppi della spiritualità (e quindi anche della letteratura e dell’arte) che serpeggiano entro il Rinascimento e si ravvivano entro la sua crisi.

Nato a Ferrara nel 1452, il Savonarola entrò giovane nell’ordine dei domenicani e dal 1482 visse prevalentemente a Firenze, nel convento di San Marco, e a Firenze svolse soprattutto la sua attività di predicatore intesa – attraverso un linguaggio profetico e immaginoso, nutrito degli esempi dei profeti biblici, pieno di visioni tragiche e apocalittiche e di ammonimenti severi ed energici – a promuovere una riforma religiosa e insieme morale e politica che si oppone insieme alle «vanità» immorali del classicismo paganeggiante, alla corruzione della Chiesa (specie sotto il pontificato di Alessandro VI Borgia), alla tirannia delle signorie, e aspira ad un ritorno alla purezza evangelica, alla severità dei costumi, alla ordinata libertà repubblicana e comunale della città e del popolo. La città concreta cui egli soprattutto guarda è Firenze ed egli cerca di sorreggerne e guidarne, fra il ’94 e il ’98, la risorta vita repubblicana, con le sue ardenti prediche e con un tipo di poesia religiosa che riprende la facilità e la musicalità dei canti carnascialeschi (come quelli già ricordati di Lorenzo il Magnifico), ma la volge ad esaltare valori religiosi e morali, con una certa sommaria rudezza, ma non senza effetti talvolta intensi di mistica energia e di affettuosa rappresentazione dell’esemplarità di Cristo e dei santi.

La sua lotta di «profeta disarmato» (come lo chiamò il Machiavelli) fu impari alla tenace opposizione della Chiesa di Roma e dei partiti fiorentini avversi al suo (chiamato spregiativamente dei «piagnoni») ed egli finí tragicamente bruciato sul rogo, mentre nella storia di Firenze e d’Italia si preparavano e in parte già si attuavano gli avvenimenti drammatici, politici e militari, delle invasioni straniere e del travagliato declino della potenza e delle libertà italiane, che egli aveva intuito nelle visioni drammatiche delle sue prediche come effetto dell’ira divina e della corruzione religiosa, morale e politica degli uomini del suo tempo.

2. Letteratura novellistica

La novellistica quattrocentesca non è ricca di opere e di autori notevoli, se si escludono la novella del Grasso legnaiuolo e soprattutto Masuccio Salernitano con il suo Novellino.

Non piú che qualche novella di una certa vivacità può ritrovarsi nell’opera anonima (ma probabilmente attribuibile a Giovanni Gherardi da Prato) che prese il titolo di Paradiso degli Alberti (dal nome di una villa fiorentina). Scarsissima forza artistica può riconoscersi alle novelle del senese Gentile Sermini, che tuttavia possono interessare per certo gusto locale e per una tradizione senese che avrà maggiori esiti e caratteristiche di pittoricità, di sfarzo, di spregiudicata alacrità narrativa, nel Cinquecento.

Né piú può dirsi delle Porrettane del bolognese Sabbadino degli Arienti, volte soprattutto a quel gusto dell’aneddoto e delle beffe curiose che costituisce anche il centro piú vivace di certa letteratura fiorentina fra le Facezie del piovano Arlotto (piene di motti spiritosi e di una popolare saggezza che si svolge spesso in piccole narrazioni fra realistiche e fantastiche) e la novella sopra ricordata del Grasso legnaiuolo, attribuita ad Antonio Manetti e legata, per il piacevole ed estroso tema della burla giocata ad un uomo semplice da un’allegra e intelligente brigata, al filone boccaccesco delle burle giuocate a Calandrino.

Ma l’unica opera novellistica di notevole impegno e valore narrativo è il Novellino del salernitano Tommaso Guardati, detto Masuccio Salernitano (1410-1480), che mentre riprende evidentemente il grande modello del Decameron, ed usa un linguaggio «napoletano illustre» riportato il piú possibile a forme toscane e boccaccesche, sviluppa, a contrasto, una sua aspirazione alla virtú, alla nobiltà umana, non priva di richiami della cultura umanistica e cortigiana meridionale, e un acre sdegno moralistico polemico e satirico contro aspetti della corruzione del tempo e specie contro le malefatte del clero e delle donne.

Sicché quelle stesse novelle che vorrebbero piú apertamente perseguire un fine di comicità tendono piú naturalmente a toni aspri, sarcastici e grotteschi e meglio Masuccio dà prove della sua ispirazione e della sua tensione narrativa, spesso eccessivamente caricata ed enfatica, nelle novelle in cui piú direttamente si esprime il contrasto accennato fra un vagheggiato mondo generoso, magnifico, virtuoso (rappresentato in certe alte figure di cavalieri e di nobili), e quello avido e perfido di religiosi ipocriti e interessati e di donne senza pudore e senza dignità morale, o in quelle interamente drammatiche in cui (come nella novella che narra le pietose e tragiche vicende di due amanti capitati in un ospizio di lebbrosi che uccidono il giovane gentiluomo per impadronirsi della fanciulla) piú interamente si realizzano le qualità narrative e il tono cupo, amaro, fino all’esaltazione del macabro e del pauroso, che sono propri di questo discontinuo, ma notevole scrittore.

3. La lirica petrarchista

Non contribuiscono molto alla ripresa della poesia nel Quattrocento e alla sua nuova capacità di esprimere i piú profondi elementi della civiltà umanistica quei lirici petrarchisti che (dopo l’esercizio insistito e monotono di variazioni su temi petrarchistici di vagheggiamento amoroso di particolari della bella persona amata, nel canzoniere del romano Giusto de’ Conti di Valmontone, significativamente intitolato La bella mano) si applicarono a svolgere l’esempio del canzoniere petrarchesco in una direzione di complicato giuoco tecnicistico e artificioso, autorizzato sí da certi aspetti del modello, ma esasperato e svuotato della ricchezza psicologica e poetica di quello, adattato a una sorta di rituale e cerimoniale di galanteria e di complimento complicato e bizzarro, sorprendente e concettoso, quale poteva esser richiesto dalla vita elegante e amorosa delle corti, in cui questi lirici servirono e si affermarono: donde la loro designazione tradizionale di «lirici cortigiani» e la loro forza di influenza sugli ambienti piú legati alle corti specie del Settentrione e del Sud, spezzata, all’inizio del Cinquecento, solo dal nuovo petrarchismo del Bembo.

Sono il ferrarese Antonio Tebaldeo (1463-1537), l’abruzzese Serafino Cimminelli detto Serafino Aquilano (1466-1500), famoso come fecondo e brillante improvvisatore e autore insieme di poesie e del loro accompagnamento musicale, lo spagnolo, ma napoletanizzato, Benedetto Gareth, detto il Cariteo (1450 circa-1514), che è certo il piú interessante di questi lirici e che nel suo canzoniere, intitolato Endimione, dimostra a volte, pur nel generale pericolo di enfasi e di cerebralismo, una certa capacità di impressioni suggestivamente malinconiche e idilliche, specie in alcuni sonetti dedicati a descrivere scene e paesaggi nella quiete incantata della notte.

4. Pandolfo Collenuccio

Piú originale appare la personalità lirica di Pandolfo Collenuccio di Pesaro (1444-1504), il quale, dopo una vita difficile al servizio di vari principi, venne arrestato e fatto decapitare da Giovanni Sforza, signore di Pesaro, per alto tradimento.

Mentre la sua vasta cultura giuridica, scientifica, letteraria, la sua esperienza di uomo di stato e di diplomatico, la sua robusta moralità e il suo estro polemico sostengono la sua ampia produzione prosastica in latino e in volgare (il Compendio de le istorie del regno di Napoli, i numerosi dialoghi in volgare e in latino che esaltano gli ideali umanistici del lavoro, della vita civile, dello spirito critico, della virtú umana), la sua personalità trova la sua espansione piú profonda nella singolare e alta canzone Alla morte, scritta nell’ultima prigionia e in attesa della decapitazione: lirica trasfigurazione della sua vita dolorosa e difficile, e della sua meditazione sui limiti dell’esistenza umana e sul carattere ostile della «matrigna» natura, in forme poetiche sintetiche, appassionate e chiare, ben corrispondenti ai caratteri del suo animo virile e pensoso. Non a caso il Leopardi lo ammirò sentendone la congenialità con suoi atteggiamenti e pensieri.